Villa Singer

L'humus di Zelig e il Comico a Milano

di Gino & Michele

È una mattina di primavera, di quelle che a Milano ti aprono il cuore.
Domenica. Il sole è già caldo e sulla circonvallazione i ciliegi di fronte alle mura spagnole di Porta Romana esaltano, con le loro immense fioriture rosa, l'asfalto ancora bagnato dal primo temporale di stagione. E' un appuntamento di rari colori al quale certi milanesi non sanno ancora rinunciare. Siamo finiti lì in vespa, con l'alibi di passare dallo studio per ritirare qualcosa. Suona il telefonino, altro appuntamento al quale certi i milanesi non sanno rinunciare.
Siamo fatti così.
La telefonata è un invito a casa di qualcuno che non conosciamo. Ci sono le elezioni amministrative e in una villa della semiperiferia (o del semicentro, ormai) si giocano gli ultimi tentativi per aggregare forze e passioni. Diciamo di sì, cambiano direzione e ci portiamo verso viale Monza. Sinceramente abbiamo accettato l'appuntamento soprattutto per il posto: ci incuriosisce Villa Singer, che sappiamo essere uno dei numerosi incanti sconosciuti di questa nostra città in minore, che si nasconde.
Villa Singer sorge a pochi passi da Zelig, il cabaret che ci ha segnato la vita. Il quartiere è quello di Gorla, che a inizi Novecento era un paese alle porte di Milano, e che oggi è una semplice fermata del metro, ormai cuore del terziario definitivamente respinto dal centro storico.
La gente che incontriamo a Villa Singer non ci dispiace per nulla, ma ricorderemo quella giornata più per il luogo e per la sua storia, che per le persone. La casa è incantevole. Tre piani nei quali i proprietari, ritornati ad abitare l'antica villa degli avi dopo una serie di tergiversie, hanno saputo conservare con gusto e senso delle radici, la storia della loro famiglia e della loro città. Quadri, soprammobili, divani, madie, persino le cucine e l'ampio giardino, sembrano raccontare percorsi mai dimenticati e interrotti. La Martesana le scorre ancora accanto, con le sue acque ora così limpide. Sotto al ponticello ad arco, a fianco della villa, attraccavano un tempo le chiatte che trasportavano dalle campagne radici e piante utili alla lavorazioni di essenze e profumi, perché questo era il lavoro del suo primo proprietario.
Eppure tutto intorno, oggi, scorre il traffico caotico delle arterie che portano al Nord: Sesto San Giovanni, Monza, la Brianza, la Svizzera. Non pochi azzardi edilizi, nel corso di tutto il secolo, hanno contribuito a rendere la zona per nulla armonica, diciamo pure disordinata e assordante. Milano è soprattutto questo, una continua follia di contraddizioni urbanistiche, di grovigli culturali a volte sublimi, altre volte indegni per una metropoli della sua importanza e della sua storia.
Zelig, il locale di Viale Monza 140 divenuto oggi famoso anche grazie alla tv, è nato lì, a due passi. Dentro ciò che è rimasto di una specie di Casa del Popolo, con sezioni di partito e un orgoglioso, sopravvissuto "Circolo Familiare di Unità Proletaria", il Cifù.
Accanto era annesso un locale da ballo, nel dopoguerra: la balera dei Buschètt, perché lì dietro, a pochi passi da Villa Singer c'erano ancora degli alberi, e così numerosi da assurgere alla dignità di bosco, se pur piccolo. La sala da ballo divenne negli anni Sessanta il mitico "Tricheco", che stava al "Piper" di Roma come la Cinquecento alla Lancia Fulvia: molto meglio la prima. Sano beat e "celentanoidi", gli innumerevoli emuli di Adriano. C'era Teocoli con i "Quelli" (la bambolina che fa no-no-no ... ) e Jannacci e Gaber che cantavano "Una fetta di limone", cui le misure del rock avevano imposto la finale tronca "nel tè". Ma queste sono altre storie e noi, usciti da Villa Singer, siamo a guardare l'acqua che lenta scorre via, prima di essere interrata, davanti al "nostro" Zelig.
Da quella domenica è trascorso qualche anno. Torniamo a rifletterei sopra. A Milano, dei tre Navigli almeno in parte sopravvissuti all'asfalto, la Martesana è il Naviglio Dimenticato, quello più piccolo e lontano. Gli altri due, il Naviglio Grande e il Naviglio Pavese, hanno mantenuto la struttura di un tempo, se non la totale dignità.
Vantano addirittura un porto, con tanto di darsena, di circolo nautico e di approssimative casette galleggianti per le papere.
Nonostante i turisti distratti, i' cognati, le Fiere, gli stilisti, le coppe e coppette di calcio, i superfurbi, i megaprogetti, le leghe, Milano non è riuscita a diventare città europea e i Navigli, quelli "buoni" di porta Ticinese, restano soltanto un quartiere di Milano piacevole ma ben lontano da Montmartre, dalle Ramblas, da Piccadilly. Eppure questi Navigli stanno sacrificando al turismo il meglio della loro essenza, cedendo via via le vetrine dei piccoli artigiani agli antiquari dell'ultim'ora, le calzolerie alle "Antiche Hostarie".
Per fortuna resta la Martesana, il Naviglio Dimenticato. Il suo percorso, ormai quasi totalmente sotterraneo, è sconosciuto persino alla maggior parte dei Milanesi. Una volta, fino agli anni Trenta, terminava a Srera, in quello che era il più importante attracco di Milano, in via San Marco. Oggi la Martesana - o il Martesana, ma a noi piace pensarla femmina - è una pista ciclabile, qualche stupenda villa inizio secolo come casa Singer, e Zelig. Poco altro.
Chissà quanto riusciremo a restare ancora lì, con il cabaret Zelig. Lo spazio diviene ogni anno più angusto, spesso le registrazioni siamo costretti a farle fuori, in un teatro tenda a Sesto. Ma facciamo fatica a lasciare viale Monza. Quel quartiere ha conservato un'anima che ha radici lontane. E il comico a Milano ha radici lontane.
Sarà perché a Milano c'era la nebbia. O per le cotolette, che si digeriscono lente, con tutto quel burro. Sarà perché il Duomo è buio, dentro, e mette un po' a disagio.
Non si è mai visto un milanese ridere per strada.
Qualche turista sì, per lo più giapponese, meglio se con i piccioni intorno. Il giapponese si rilassa e gode e sorride felice, ebbro di stilisti sbirciati in Montenapo e di guglie arzigogolate; sorride persino sul sagrato che, dài, è davvero uno dei più brutti d'Italia. Il milanese no. E' vero che ha sempre fretta, e anche quando il passo non è agitato gli si legge negli occhi che ha da raggiungere una meta, piccola o grande che sia, ma pur sempre una meta. I milanesi non hanno animo né tempo per ridere, a gratis.
I milanesi ridono per scelta. Lo fanno da grandi intenditori perché il riso - la versione dell'altra metà del tragico - fa parte della loro cultura. Il milanese ama coltivare quella parte di sé che sa leggere la realtà capovolta. La ama a tal punto che se la coccola da secoli dentro quei necessari luoghi di comunicazione che sono i locali pubblici nati per il convivio. Lo erano le antiche osterie, le trattorie fuori e dentro porta. E via via i trani periferici delle contaminazioni nord-sud, e i bar, le cantine, fino ai pub di oggi. Tutti i milanesi, dal popolo dei "Cibi cotti", alle aristocrazie dei salotti letterari.
Persino il grande romanzo del perbenismo ottocentesco - i Promessi sposi - è intriso di umorismo sottile e di bonaria arguta ironia.
Chi ha detto che il milanese è triste ... Se qualcuno ancora crede in una Milano noiosa e un po' troppo bacchettona, vada a ripercorrersi le follie della Scapigliatura, movimento letterario lombardo unico e irripetibile. O riscopra Carlo Porta. E, perché "no, il teatro di Mazzarella, le intuizioni di Bramieri, le sublimi genialità logorroiche di Walter Chiari, le riscritture della donna meneghina inventate dall'inimitabile Franca Valeri. Si lasci affascinare dalla breve quanto incisiva esperienza del Teatro da Camera dei Gobbi. Persino la cucina grassa ma a suo modo "elegantemente" provinciale dei primi Legnanesi può farci riflettere su quell'anima comica mai doma che trasversalmente ha attraversato la cultura lombarda.
Milano ha regalato al mondo un premio Nobel maestro di comicità, Dario Fo.
E un grande poeta che sa di musica, Enzo Jannacci.
A Milano sono maturati scrittori anomali spesso contaminati dal gusto di quell'autoironia metropolitana che i milanesi conoscono molto bene e sanno coltivare con gelosia. Quanto amaro, a volte violento sarcasmo nelle pagine che descrivevano la Milano del boom nella Vita agra di Bianciardi, milanese d'adozione. O la città delle notti disincantate di Umberto Simonetta. Quanta ironia nella metropoli anche marginale di quella formidabile pedina fuori posto che fu il giornalista Rai Beppe Viola. E negli scritti ricercati e colti di Gianni Brera, intellettuale lombardo di genio prestato alla Milano sportiva. O nelle cronache a volte esilaranti di Camilla Cederna, sofisticata immagine del potere e dell'opposizione della "sua" città.
Gente che ha respirato Milano, la sua aria antica e modernissima, difficile, anche, ma sempre vitale. Intellettuali che non si chiudevano in casa. Quando negli anni Sessanta è nato il Derby club in viale Monterosa, già si intuiva in città un clima che faceva prevedere la nascita di locali sempre più specifici legati alla cultura del comico. Luoghi che soprattutto da allora hanno segnato i percorsi culturali della nostra metropoli, dal Derby, appunto, fino all'odierno Zelig di viale Monza, nato a metà degli anni Ottanta. Da questa cultura del comico, condivisa in sale fumose con intellettuali di varie specie, da Umberto Eco a Lucio Fontana, per non dire di Almodòvar, Topor, Pedro Pietri ospitati anni dopo nelle salette e sui palchi di Zelig, sono nati i grandi artisti di scuola milanese che hanno contribuito a dare un'anima e a volte una testa all'Italia di questi ultimi quarant'anni.
Nessuno di loro si è mai vergognato di avere contribuito alla costruzione del cabaret così come dev'essere inteso nella sua accezione unica, che era e è quella di un luogo di incontro e interazione con il pubblico e con il reale. Nel cabaret - Milano lo sa bene - c' è un darsi senza rete, c'è il mettersi a nudo, pubblico e artista, in un gioco senza mezze misure che non conosce quarte pareti.
L'elenco di chi ha animato queste sale è infinito, di lettura alta e di lettura meno alta - ironia, satira, comicità pura - come si conviene là dove la cultura è intesa come vita quotidiana (e viceversa).
Non citeremo nessuno, nessuno di quella infinita teoria di artisti che il cabaret milanese ha regalato alla cultura italiana. Sono troppi. Una Milano strepitosa che non ha quasi mai conosciuto, incredibile, la consacrazione dell'ufficialità. Contrariamente ai grandi artisti del riso che hanno animato la città dal dopoguerra, le istituzioni si sono sempre vergognate un po', un po' troppo, di questa anima comica e pulsante della loro metropoli.
Che è sopravvissuta grazie soltanto ai milanesi, nonostante l'ingegno delle amministrazioni, che via via si sono susseguite nei decenni, abbia sempre provveduto a dimenticarla.
Già, il destino di Milano è quello di passare da sempre e per sempre come una città noiosa, che si prende sul serio all'eccesso. Una città statica e incline all'autocommiserazione di non essere così italiana da poter scavalcare Roma, né così mitteleuropea da avvicinare Berlino.
Questo, secondo i seriosi luoghi comuni, comodi per chi vuole dipingerla soltanto come la città degli stilisti e delle Fiere, delle imprese calcistiche e del "Iavurà".
Non che a noi milanesi queste cose facciano schifo. E' che ci sappiamo ridere anche sopra. E' la nostra forza. Forse la nostra dote più originale.
Diceva un grande londinese che per questo avrebbe potuto vivere a Milano: "Non vi è quasi nulla che abbia un così acuto senso di allegria come una foglia caduta."